è passato un anno esatto da quando l’esercito ucraino ha ripreso il controllo di Bucha e Irpin, due piccole città nella periferia ovest di Kyiv, in direzione del confine con la Bielorussia. Il paesaggio è molto cambiato da quando questi due luoghi sono entrati nella memoria collettiva di tutto il mondo come teatro dei terribili massacri commessi dai soldati russi. Ad oggi si stimano 9000 crimini di guerra commessi in 33 giorni di occupazione. Torture, esecuzioni sommarie, stupri, rapimenti, fosse comuni con i corpi ancora legati. Per non parlare di ospedali, scuole, centri culturali e abitazioni civili distrutte.
La Russia nega, rimbalza le accuse di crimini di guerra, fake news dice. Per conoscere la verità basta farsi un giro lungo quella strada che collega le due piccole città. Oggi ripulita dalle macerie e dalle fila di carri armati distrutti, ma ovunque ci si giri i segni sono indelebili: i muri trivellati di colpi, le buche sparse qua e là, piccole case distrutte e alti palazzoni senza vetri, bucati e colorati di nero dalle fiamme. Le deviazioni sono continue lungo il percorso, non per nascondere qualcosa, il ponte era stato abbattuto per rallentare l’avanzata, poco più avanti invece bisogna passare per una piccola strada sterrata perché quella principale conta ancora numerose buche per i colpi di cannone. Gli operai insieme agli abitanti lavorano ininterrottamente per ripristinare ogni cosa. Si ricomincia, si vuole ricominciare, ma dimenticare è impossibile.
Nella città di Irpin molti negozi sono aperti, c’è un gran via vai dalla stazione, qualche soldato torna a casa. Le sirene interrompono all’improvviso, ma nessuno sembra farci più caso, ognuno continua a fare quello che stava facendo perché il peggio di qua, è già passato. Ad un certo punto mi fermo, scendo dalla macchina ed entro in un complesso di case popolari in tipico stile sovietico, ogni edificio intorno a me è distrutto. Molti appartamenti sono chiusi e abbandonati. Il cortile infangato dalla neve dei giorni scorsi conta diverse macchine distrutte e piene di fori di proiettili. I combattimenti sono stati in mezzo alle case, impedendo ogni via di fuga alla popolazione rintanata dove poteva, senza acqua riscaldamento ed elettricità. Dietro di me un edificio assomiglia molto a una scuola, di fronte un centro sportivo. Nulla di tutto questo è più utilizzabile, a parte il campetto da calcio dove dei ragazzi si sfidano a pallone. Un uomo scandisce il tempo a colpi di martello provando a recuperare un pezzo di ferraglia, mentre una anziana signora con lo sguardo fermo immobile controlla i bambini che giocano saltando dal tettuccio a un altro delle auto color ruggine accartocciate nel cortile. Urlano, gridano, si rincorrono, sono tanti, nonostante tutto. Io, sono come un fantasma, cammino indisturbato tra mille occhi che hanno visto la morte e ora non vogliono vedere altro che un po’ di tranquillità, un po’ di pace.
Non è facile per me essere qui un anno dopo, immaginate loro che lo hanno vissuto.
Bucha e Irpin hanno tolto ogni dubbio a quella parte di ucraini che credeva che la Russia fosse lì come liberatrice. a Bucha e Irpin l’esercito russo ha provato a cancellare un sentimento, un popolo, una cultura. Perché se in Donbass sono andati a difendere una minoranza di russofoni, quale era la colpa delle centinaia di civili trovati nelle fosse comuni a centinaia di kilometri di distanza? Bucha e Irpin sono stati un segnale, una dichiarazione d’intenti, e qui nessuno lo dimenticherà, e nessuno perdonerà.